La chiesa dello Splendore, nel coro e nella sacrestia, conserva 5 grandi tele celebri. La notte del 3 luglio 2000 esse erano scomparse insieme a un Tabernacolo ligneo, per mano di ladri sacrileghi che avevano potuto rubare indisturbati, introducendosi da una porta posteriore del campanile, al tempo in fase di restauro.
Grazie all’azione intelligente e rapida dei Carabinieri della stazione di Giulianova e del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale di Roma, i dipinti e il Tabernacolo furono recuperati nel giro di 15-20 giorni e il 15 agosto 2000, festa dell’Assunta, ricollocati ai loro posti.
Quattro tele di identiche dimensioni (cm 200×140), rappresentano momenti della vita di Maria, visti attraverso la fede della Chiesa:
– l’Immacolata concezione
– la Natività di Maria
– l’Annunciazione l’Assunzione al cielo.
Restaurate a cura della Soprintendenza per i Beni Artistici dell’Abruzzo, nel 1996 sono state restituite al Santuario. Stando alle più recenti ricerche, queste quattro tele fanno parte di un ciclo che un pittore nativo di Trapani, ma napoletano di adozione, Giacomo Farelli (1624?-1701) aveva realizzato, intorno al 1660, forse proprio per la primitiva chiesa del Santuario dello Splendore, dietro incarico e per devozione dei Duchi Acquaviva. In quegli anni, infatti, l’artista stava affrescando l’interno del palazzo ducale di Atri, i cui affreschi, purtroppo, sono andati perduti. Ma in questi ultimi decenni sono state scoperte altre opere che il Farelli ha lasciato in Abruzzo: oltre che ad Atri, pare accertato che nella Scala Santa di Campli alcuni dipinti portano la sua firma e sono opere sue o della sua scuola le tele della vecchia chiesa dei cappuccini di Cermignano e di Sulmona; altre opere sono all’Aquila.
In una storia del santuario, ristampata nel 1870 su edizione del 1657, si legge: “Nell’anno 1653 … l’eccellentissimo sig. Duca d’Atri XIV don Giosia Acquaviva, niente dissimile dai suoi antenati, ma tra essi il più singolare, ed il popolo di Giulianova, acciocché questa Vergine non rimanesse abbandonata, ed il suo monastero derelitto … “: si diedero da fare per rinnovare, restaurare e ingrandire il piccolo Santuario e l’annesso monastero.
“L’Eccellentissimo signor Duca don Giosia Acquaviva volle colle proprie mani onorarla della prima pietra di fondamenta per fondamentarci eternamente la memoria della singolar divozione, che egli aveva verso di questa gran Vergine dello Splendore… e risolvette di ridurre la sua chiesa in miglior stato e struttura di quello si trovava prima … “.
Passando poi a descrivere i lavori effettuati nella piccola chiesa, il testo aggiunge: ” … Quell’eccellentissimo Signore fece rifare con moderne maniere l’Altare Maggiore, ove sta collocata la statua della gloriosa Vergine … ,· nel rimanente del suo vano altri quattro altari tutti umformi. .. con superbissimi quadri che per la stima del pittore che li pinse, essendo stata l’eccellente mano del Farelli, si tengono con gran custodia coperti, (toltine però i giorni solenni), acciocché non siano offesi dalla polvere … “.
La tela più grande (cm 255 x 141) raffigura la Madonna col Bambino, circondata da santi, sotto l’azione dello Spirito Santo e lo sguardo benedicente dell’Eterno Padre tra angeli. Datata intorno al 1560, è attribuita alla scuola di Paolo Caliari, detto Veronese dalla città dove nacque nel 1528 (morì a Venezia nel 1588). Artista prolifico, ha lasciato nel nostro Abruzzo diversi segni del suo passaggio, probabilmente anche lui impegnato dalla famiglia ducale degli Acquaviva di Atri. Che il dipinto sia del Veronese o della sua scuola lo confermerebbe la presenza di un ramoscello d’olivo con cui l’artista pare fosse solito firmare le sue opere.
In vari testi d’arte (es. T. Pignatti – F. Pedrocco, Veronese, tomo 2 – Electa), dedicati al Veronese, è riprodotto un dipinto simile, con leggerissime varianti, di una decina di centimetri più largo, attribuito quasi unanimemente allo stesso artista: si trova nella casa episcopale di Monopoli, in Puglia. Sono ambedue opere originali dello stesso Veronese o l’uno è copia dell’altro? Una bella indagine da fare; intanto è interessante sapere che i disegni preparatori di quest’ultimo dipinto si trovano agli Uffizi di Firenze e al Louvre di Parigi.
Le nostre cinque tele – come innumerevoli altre sparse in tutto il mondo – sono state per secoli una catechesi mariana a colori, e sono ancora oggi testimonianza della fede della Chiesa. Il linguaggio proprio dell’arte figurativa ci racconta con rara efficacia la vita della Madonna, la sua apertura a Dio come “ancella” del Signore.
Esse esprimono e documentano l’arte e la pietà del diciassettesimo secolo: un secolo di grande e profonda devozione alla Madonna; fa bene alla nostra fede, anche se con diversa sensibilità, rispecchiarsi in quella pietà e in quell’arte.
È un quadro di straordinario interesse, perché testimonia come il dogma dell’Immacolata concezione, proclamato solo nel 1854, era già da secoli nella fede del popolo cristiano.
Nei dipinti del Farelli è la luce protagonista e guida dall’immagine al messaggio. Dall’alto, dall’Onnipotente Dio, promana una luminosità che si materializza nella figura, una luce da cui quasi nasce la Vergine Maria; è la creazione di una nuova umanità non guastata dal peccato. Anche gli angioletti sono come colti da meraviglia e pare si ritraggano per fare spazio a questo evento di nuova creazione.
Nell’atteggiamento umile e solenne la Vergine ci appare come colei che, consapevole del dono di Dio, va ripetendo: Eccomi, sono la serva del Signore … ,· l’anima mia è piena di gratitudine.
Il dipinto ripropone al credente l’importanza del raccoglimento e della fede, perché la parola ascoltata trovi spazio nel cuore e diventi poi realtà, secondo la beatitudine proclamata da Gesù: Beati quelli che ascoltano la Parola, la custodiscono in un cuore buono, e la mettono in pratica.
È il quadro più intriso di luce, con due sole figure; una rappresentazione del mistero un pò diversa dalle tradizionali “annunciazioni”. Qui, inginocchiato nel piano alto della composizione l’Angelo Gabriele parla con rispetto e insieme con autorevolezza, quasi nell’atto di rispondere alla domanda di Maria inginocchiata e curva in primo piano: “Come è possibile? … ” – “Lo Spirito santo scenderà su di te, l’ombra dell’Onnipotente Iddio ti avvolgerà … “ .
È straordinaria la capacità figurativa dell’artista che dipinge l’«ombra» dell’Altissimo come una sorgente luminosa indicata dall’angelo quasi a ripetere: sarai inondata dalla luce inaccessibile dell’Eterno e colui che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio. Nell’atteggiamento raccolto della Vergine, si direbbe che il pittore abbia voluto fissare il momento precedente l’atto di fede e di abbandono: eccomi!
Anche questa “icona” è una catechesi attuale per il cristiano, il quale sa che il primo passo della fede consiste nell’accoglienza della Parola, come ha fatto Maria:
“Eccomi, sono la serva del Signore, awenga di me secondo la tua parola!”.
Sei figure disposte su piani diversi animano la scena dentro un’architettura aperta e anche qui è la luce a guidarci; in una composizione quasi immersa nell’ombra, tutto converge verso un centro investito di luce, la cui sorgente è fuori del quadro, invisibile: il centro è la bambina neonata sulle ginocchia di una giovane donna.
In primo piano un’altra giovane donna, anch’essa investita dal riverbero nel volto e nel petto è pronta per il bagnetto della bimba, verso cui è rivolta. Ai lati, due figure maschili: quella di destra sfiorata appena dalla luce sul viso, guarda intensamente al centro luminoso; quella di sinistra, quasi in ombra, è rivolta col viso verso l’alto, a un’altra figura di donna anziana nel letto, sotto la coltre, attraversata di luce: Gioacchino guarda verso Anna, l’uno e l’altra stupiti del dono ricevuto.
Maria, col linguaggio della tradizione, è l’aurora che annunzia il Sole sorgente dall’alto.
È ancora la luce che ci guida: la Vergine vestita di luce, sale verso un bagliore più intenso nel cielo, dimora cui Dio la chiama. In primo piano alcuni apostoli guardano in alto, altri pare si chiedano se questo andarsene della Vergine non sia un altro “piccolo abbandono“, dopo quello di Gesù asceso al cielo.
Ma, nella semioscurità del piano basso, tutti i volti sono illuminati, come se la luce che viene dall’alto recasse un messaggio di rassicurazione e di speranza: non temete, non scoraggiatevi, dove vado io, verrete anche voi!
È spontaneo vedere nelle ombre e nelle oscurità del quadro le ombre e le oscurità della vita quotidiana, i nostri giorni intessuti anche di dolore, di afflizione, di contrarietà e di incomprensione.
Pare bello nel contempo leggere nella luce che scende dal cielo, verso cui la Vergine sale, un segno della presenza di Dio che, illuminando le nostre pene e le nostre oscurità quotidiane, ci ripete con Paolo: “Noi, invece, cittadini del cielo, è di là che aspettiamo il nostro Salvatore Gesù Cristo, il Signore“.
È una pala d’altare dalla composizione complessa e ricca per figure e colori, anche se un pò spenta dal tempo. Più che rappresentare un momento della vita della Madonna, questo quadro vuol “descrivere” una realtà spirituale in cui cielo e terra s’incontrano e comunicano.
Pare che il dipinto si proponga anzitutto come professione di fede della Chiesa: Credo in Dio Padre, da cui tutto proviene, credo nello Spirito santo che rende possibile la volontà creatrice e salvatrice del Padre,credo in Gesù Cristo che, per opera dello Spirito santo, nacque da Maria Vergine… Questo Aglio, disceso dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza, è nato dalla Vergine Madre: è lei che ha permesso al Verbo di Dio di farsi carne e costituire l’anello di congiunzione tra il cielo e la terra.
Dall’evento dell’Incarnazione nasce la Chiesa, rappresentata dall’apostolo Pietro con il simbolo delle chiavi e dall’apostolo Paolo con un libro tra le mani, simbolo della sua predicazione e del suo insegnamento.
Anche qui risalta, tra la Vergine e gli apostoli, una figura femminile rivolta al Signore e alla Madonna, quasi a sottolineare la presenza “forte” della donna che nella chiesa.
Nell’ampia sacrestia – dove è l’antico pozzo dell’acqua sorgiva, ornato nel 1986 da vivaci mosaici dell’artista atriano Bruno Zenobio – una custodia di vetro accoglie il tabernacolo ligneo dell’antica chiesa dei cappuccini di Giulianova nel convento di San Michele Arcangelo (fine 500), oggi Casa Maria Immacolata.
Molto caro affettivamente, il manufatto è opera dei nostri fratelli laici detti “maestri marangoni”, cioè falegnami ebanisti, che tra il Sei/Settecento costituirono quasi una scuola d’arte non solo in Abruzzo ma in quasi tutte le regioni d’Italia. Essi si dedicarono alla produzione di manufatti lignei, in quanto il legno era ritenuto un materiale più adatto allo stile di umili frati cappuccini. Nota uno storico: i tabernacoli lignei, lavorati da questi fratelli cappuccini, esprimono due valori:
• la devozione all’Eucaristia, sull’esempio e per mandato di san Francesco, soprattutto nel suo Testamento;
• la povertà che – come s’è detto – privilegia l’uso di materiali poveri, qual è il legno.
Gli umili fratelli “marangoni” hanno realizzato vere opere d’arte che possono ancora ammirarsi in alcune chiese cappuccine.
Quello che potete ammirare qui è un “tabernacolo“, cioè una piccola casa per custodire l’Eucaristia.
Esso è attribuito alla scuola di fra Michele Simone da Petrella Salto (oggi in provincia di Rieti), uno dei capi “marangoni” che lavorarono molti degli altari e dei tabernacoli delle chiese dei cappuccini in Abruzzo.
Questo nostro fratello non sacerdote, nato nel 1675 morto all’Aquila nel 1730, fu prima un bravo scolaro del più famoso fra Felice da Teramo – disegnatore ed incisore degli stupendi altari e tabernacoli di Chieti e di Teramo di cui parla anche il Niccola Palma – poi anche lui bravissimo e famoso intagliatore. A riguardo, nel Necrologio dei Frati Cappuccini d’Abruzzo si legge che “appena diventato religioso fu posto alla scuola dei nostri intagliatori nella quale arte riuscì in breve valentissimo, meritando un posto cospicuo nella storia della provincia”.
Il Tabernacolo dovrebbe essere stato realizzato negli anni 1720-1723, assieme all’altare maggiore dell’antico convento cappuccino di Giulianova, ora Casa Maria Immacolata, dove si possono ancora ammirare due bellissimi reliquiari intagliati.
Con frate Michele da Petrella pare abbiano lavorato fra Serafino da Nembro – autore con altri anche del tabernacolo della chiesa dei cappuccini di Campli – e Andrea da S. Donato.
Nel 1811, per le leggi restrittive riguardanti gli Istituti religiosi, i frati cappuccini furono espulsi dal primo convento. E quando nel 184 7, dietro insistenza del Re di Napoli, delle autorità e del popolo di Giulianova, essi presero possesso del convento dello Splendore, portarono con sé il tabernacolo, ma non risulta che lo collocassero sull’altare maggiore; rimasto un po’ abbandonato, negli anni ’90 esso è stato restaurato e posto in bella vista in sacrestia, dentro una custodia.
Con i frati “marangoni” che ci hanno lasciato un tesoro d’arte così bello ci è caro far memoria anche di altri umili fratelli “laici” che molti devoti forse hanno conosciuto e ancora ricordano: fra Giuseppe da Scurcola Marsicana, fra Filippo da Vasto, fra Domenico da Guardiagrele e altri.