Curare sempre, guarire se possibile

Curare sempre, guarire se possibile

Il termine “Curare” richiama la radice “cor”, cuore; vuol dire avere a cuore una situazione, un malato, dedicare attenzione, tempo e risorse per assicurare la salute o il benessere. È un’attività del medico, dell’infermiere o di un altro professionista sanitario, attraverso la somministrazione di farmaci, terapie o altri trattamenti. “Curare sempre”: Sottolinea l’obbligo morale e professionale del medico e dell’infermiere di prendersi cura del paziente e migliorarne la qualità della vita. “Guarire” Significa eliminare una malattia, un disturbo o un malessere, ripristinando la salute e il benessere. “Se possibile” dice realismo e onestà: Il medico si impegna a fare il massimo per il paziente, anche quando la guarigione completa non è possibile e riconosce i limiti della medicina.

L’arte del curare è antica quanto l’umanità. Tentativi di lenire il dolore, rimediare al danno causato da infermità, sono stati fatti istintivamente dai primi uomini. È ben noto come anche gli animali usino disinfettarsi le ferite con la saliva, attenuare la febbre immergendosi nell’acqua, liberarsi dai parassiti mangiando specifici tipi di erbe ecc. Poi l’uomo cominciò a conoscere e apprezzare meglio l’uso delle piante medicinali e altre sostanze che trovava nella natura. Alcuni ritenevano che le malattie sono opera di spiriti maligni o punizioni di Dio e sorsero i maghi che curavano con riti magici: bagni, diete ecc. Ma ben presto venne emergendo la figura del medico che si distaccò da quella del mago o guaritore.

500 anni prima di Cristo, un famoso medico greco, ha dato delle norme morali all’arte medica in uno scritto chiamato dal suo nome “Giuramento di Ippocrate” dove elenca gli impegni che ciascun medico deve prendersi in coscienza. Questi impegni per secoli hanno costituito i principi etici fondamentali che hanno influenzato la pratica medica occidentale. Nel Medio Evo, un amanuense che trascrisse in greco quel testo usò una forma grafica disponendo le lettere a forma di croce. Segno che vi aveva intravisto un insegnamento di Cristo.

Ecco alcuni principi.

Il medico deve mettere il benessere del paziente al primo posto, agendo sempre nel suo migliore interesse. Deve astenersi da qualsiasi azione che possa nuocere al paziente. Deve mantenere riservati i segreti dei pazienti e non rivelare informazioni confidenziali a terzi. Deve agire con onestà e integrità in tutte le sue azioni. Deve impegnarsi in un apprendimento continuo per migliorare le sue conoscenze e competenze. Deve rispettare la vita e non praticare l’eutanasia.

Quando è venuto Gesù ha mostrato particolare attenzione per i malati, verso i quali ha avuto cura e compassione. “Non sono venuto per i sani, ma per i malati” (Mt 9.12-13)
I Vangeli ci presentano un Gesù profondamente commosso dalla sofferenza umana, si china sui malati non solo per guarirli, ma per offrire loro conforto e speranza. Gesù non vede solo la malattia, ma vede la persona nella sua interezza, riconoscendo la sua dignità e il suo valore. Non guarisce tutti i malati. Alcuni rimangono nella loro sofferenza. In questi casi, Gesù non abbandona la persona, ma la consola, la incoraggia e le offre la sua presenza. Il rapporto di Gesù con i malati ci invita ad essere persone compassionevoli e solidali con i sofferenti.
La parabola del buon samaritano, raccontata da Gesù nel Vangelo di Luca (10:25-37), riassume un insegnamento profondo e ricco di significati su temi come: la compassionel’amoreil servizio al prossimo e la definizione di “prossimo”.
Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: « chi è il mio prossimo? ». Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a Gerico, dove giaceva per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai briganti, proprio il Samaritano dimostrò di essere davvero il « prossimo » per quell’infelice, fu colui che adempì il comandamento dell’amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la stessa strada: uno era sacerdote, e l’altro levita, ma ciascuno « lo vide e passò oltre » forse per non contaminarsi. Invece, il Samaritano « lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, lo curò con olio e vino, (lo disinfettò) gli fasciò le ferite », poi « lo portò a una locanda e si prese cura di lui ». (Sembra una scena di pronto soccorso con codice rosso). E all’atto di partire, affidò la cura dell’uomo sofferente all’albergatore, impegnandosi a sostenere le spese occorrenti. Il samaritano, considerato un nemico dai Giudei, dimostra un amore e una compassione immensi verso l’uomo ferito, superando le divisioni etniche e religiose. Il suo è stato vero amore senza discriminazione, tradotto in azioni concrete. Non si limita a fermarsi e a commiserare l’uomo ferito, ma si adopera attivamente per aiutarlo. Gesù poi chiede: “Chi dei tre è stato prossimo all’infelice?” Ha ribaltato la domanda, quello aveva chiesto: Chi è il mio prossimo? cioè: fin dove arriva il mio amore? ma Gesù gli chiede “Chi si è fatto prossimo? cioè da dove parte l’amore? Il prossimo è colui che si “approssima”, si fa vicino a chi ha bisogno. Infine Gesù esorta: “Va, e fa anche tu lo stesso”, non chiede di riflettere sulla parabola, ma invita ad imitare il buon samaritano, ad avere la sua compassione, a farsi vicini fisicamente ai malati, ai bisognosi e curarli con amore come si trattasse di curare loro stessi.

Il buon Samaritano, nel quale si rispecchia l’amore del Figlio di Dio, è modello dei doveri e dei compiti degli operatori sanitari. Tale modello riafferma, che questo servizio, prima che essere una professione è una missione.

Per il medico, per l’infermiere, non c’è giorno segnato in rosso sul calendario, come a dire: oggi sono libero, sono in vacanza. No, il medico, l’infermiere è sempre in servizio anche quando sta in ferie, anche quando non è di turno, perché è sempre medico o infermiere di fronte ad un prossimo che si potrebbe presentare all’improvviso, bisognoso di soccorso.

Sull’esempio di Gesù, la Chiesa è stata sempre sensibile verso i malati, tanto che ha fondato e tuttora gestisce numerosi ospedali in tutto il mondo, offrendo cure mediche a tutti, indipendentemente dalla loro fede o situazione economica. Essa considera la sofferenza come un aspetto inevitabile della vita umana, ma anche come un’opportunità di crescita spirituale e di avvicinamento a Dio. Il punto di riferimento è la sofferenza di Gesù sulla croce, laddove passione e morte sono viste come un atto di amore e di sacrificio per la salvezza dell’umanità. Gesù ha dato valore alla sofferenza e questa è diventata un mezzo di purificazione del cuore, di crescita spirituale e di unione con Dio.

Per aiutare ogni operatore sanitario a compiere il suo servizio alla vita umana dall’inizio fino alla fine naturale, in modo pienamente umano e specificamente cristiano, la Chiesa ha stilato “La Carta degli Operatori Sanitari”, (la prima edizione nel 1986, la Nuova Carta nel 2016), è una sintesi di etica ippocratica e di morale cristiana. Nelle oltre 150 pagine di cui è fatto il testo vengono affrontati tantissimi temi relativi alla cura della salute, al rispetto della vita e a problemi morali connessi.

Il documento descrive anche la figura dell’operatore sanitario. L’attività degli operatori sanitari è l’espressione di un servizio profondamente umano e cristiano, perché non è sola tecnica, ma anche e soprattutto dedizione e amore ad un con-simile, ad un prossimo, con la vigile e premurosa presenza accanto agli ammalati. Per l’operatore sanitario, l’ammalato non è mai o almeno non dovrebbe esserlo, un semplice caso clinico da esaminare “scientificamente”, ma è sempre una persona particolarmente bisognosa.
“Non basta la perizia scientifica e professionale, occorre la personale partecipazione alle situazioni concrete del singolo paziente”, vale a dire: “disponibilità, attenzione, comprensione, condivisione, benevolenza, pazienza, dialogo”(Carta 2). “Medici, infermieri, altri cooperatori della salute, volontari, precisa il papa san Giovanni Paolo II, sono chiamati ad essere l’immagine viva di Cristo e della sua Chiesa nell’amore verso i malati e i sofferenti: testimoni del «vangelo della vita»[Citato in Carta 5]. Insomma sono chiamati ad essere buoni samaritani. Quando le condizioni di salute si deteriorano in modo irreversibile e letale, ossia quando l’uomo entra nello stadio terminale del suo esistere terreno, gli operatori sanitari sono chiamati a dare una speciale assistenza al morente. In questa fase, la prima cura è una presenza amorevole piena di attenzioni e di premure, che infondono fiducia e speranza affinché al rifiuto della morte subentri la sua accettazione. Impotenti davanti al mistero della morte, la fede cristiana è l’unica sorgente di serenità e di pace. È allora più che mai confortante far sperimentare al malato terminale la presenza sacramentale di Cristo, “Verbo della vita” mediante l’Unzione degli Infermi e ancora di più, l’Eucaristia come Viatico del corpo e del sangue di Cristo; secondo le parole stesse di Cristo esso munisce del pegno della risurrezione: “Chi mangia la mia carte e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

 

San Francesco d’Assisi, ebbe una profonda compassione per i malati e i bisognosi. In un’epoca in cui i lebbrosi erano considerati emarginati e temuti, egli si dedicò alla loro cura. Li visitava negli ospedali, li assisteva nelle loro necessità e li trattava con amore e rispetto, senza timore del contagio. Nel suo testamento racconta che un giorno incontrò un lebbroso, inizialmente fu preso dal ribrezzo, ma poi la grazia di Dio lo vinse e addirittura abbracciò quel malato come un fratello più caro. Quell’incontro gli cambiò la vita e affermò: “Quello che prima mi pareva amaro, mi fu convertito in dolcezza dell’anima e del corpo”. (FF 110)
Francesco credeva che ogni persona, specialmente il malato, fosse un dono di Dio e che la sofferenza fosse un’occasione per entrare in contatto con il dolore di Cristo. Incoraggiava i suoi seguaci a vedere Cristo nei malati e a prendersi cura di loro con un amore misericordioso.

Madre Teresa di Calcutta, aveva una profonda compassione e grande impegno per la cura dei bisognosi: aveva insegnato alle suore a mettere in pratica il detto di Gesù: Quello che avete fatto ad un malato, ad un moribondo.., l’avete fatto a me”. (Mt 25,40) Una suora rientrando la sera a casa, le dice: Madre oggi ho toccato per due ore Gesù! Aveva accudito un moribondo. Ecco alcuni detti edificanti di Madre Teresa:

  • “Non possiamo fare grandi cose, ma possiamo fare piccole cose con grande amore.” Ogni gesto, fatto con amore, può fare la differenza nella vita di un malato.
    • “Il frutto più grande della fede è l’amore.”

• “Un’ora spesa con i malati non è mai persa.” Madre Teresa dedicava la sua vita ai malati, credendo che ogni momento trascorso con loro fosse prezioso. Il tempo speso con i bisognosi era un investimento nella dignità umana e nella bellezza dell’amore.